lunedì 8 giugno 2009

Mentre in Libano i moderati lottano per la liberta', in Francia i moderati -per paura- occultano le prove dell'odio

Se questo è un ebreo

“Se questo è un ebreo”. Il caso del Daniel Pearl francese. Al processo contro gli islamisti che hanno torturato e giustiziato Halimi s’è alzato un grido: “Allah vincerà”

di Giulio Meotti

Roma. “Se questo è un ebreo”, recita il titolo del bellissimo pamphlet di Adrien Barrot. La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan Halimi soltanto dopo la sua morte. Un sorriso che nulla sembra dire di quell’odio e di quella ferocia durata tre settimane nelle mani di una gang di islamisti delle banlieue parigine. “Giovani per i quali gli ebrei sono inevitabilmente ricchi”, ha detto Ruth Halimi degli assassini di suo figlio. La madre di Ilan ha pubblicato il diario di quei “24 giorni” (Seuil edizioni). Ieri Ruth è andata in tribunale a guardare la gang musulmana, in un processo che genera angoscia e scandalo in Francia per come il caso è stato trattato fin dall’inizio, da quel tragico febbraio di tre anni fa. “Quando li osservo, non vedo odio, ma una tristezza immensa”, dice il padre, Didier Halimi. Ruth ripete che l’uccisione di suo figlio è “senza precedenti dalla Shoah”. Youssouf Fofana, il capo “dei barbari”, è entrato in aula con il sorriso, ha alzato un pugno verso l’alto e gridato: “Allah vincerà”. Testa rasata e maglietta bianca, Fofana alla domanda sulla sua data di nascita ha risposto: “Il 13 febbraio 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois”. E’ il giorno in cui il corpo di Ilan è stato trovato, nudo e straziato. Quando gli viene chiesto il nome, Fofana risponde: “Africana barbara armata rivolta salafista”. La Francia non ha ancora fatto i conti con questo feroce antisemitismo islamico, che germina all’interno delle sue folte comunità musulmane. Sei anni fa, Sebastien Selam, un dj di Parigi di 23 anni, uscito dall’appartamento dei genitori per andare al lavoro, venne aggredito nel garage del parcheggio dal vicino musulmano Adel, che gli ha tagliato la gola due volte, quasi decapitandolo, gli ha squarciato il volto e gli ha cavato gli occhi. Adel è corso sulle scale del condominio, grondando sangue e urlando: “Ho ucciso il mio ebreo. Andrò in paradiso”. Nella stessa città, in quella stessa sera, un’altra donna ebrea veniva assassinata, in presenza della figlia, da un altro musulmano. Erano i prodromi di una “tendenza” e i mezzi di comunicazione amano le tendenze. Eppure, nessuna delle principali testate francesi riportò il fatto. Lo zio di Ilan racconta che durante le telefonate per il riscatto alla famiglia venivano fatte sentire le urla del ragazzo ebreo bruciato sulla pelle, mentre “i suoi torturatori leggevano ad alta voce versi del Corano”. I rapitori pensavano che tutti gli ebrei fossero ricchi e che la famiglia di Halimi avrebbe pagato il riscatto. Non sapevano che la madre era una centralinista. E che Ilan, per campare alla meglio, lavorava in un negozio di telefoni cellulari. Fu trovato agonizzante, il corpo bruciato all’ottanta per cento, vicino alla stazione di Saint-Geneviève-des-Bois. Seminudo, con ferite e bruciature di sigarette ovunque sulla carne viva e in tutto il corpo, Ilan è morto nell’ambulanza verso l’ospedale. Ruth nel suo libro denuncia che, per non urtare la sensibilità della comunità musulmana delle periferie, il caso venne fin dall’inizio tenuto su un registro basso, la polizia negava l’intento religioso del sequestro e l’identità islamica di tutti i rapitori; la stessa polizia che chiese alla famiglia di non farsi pubblicità e che fece poco, molto poco, per scardinare la rete di famiglie che proteggeva la gang. Decine di persone sapevano delle torture inflitte per tre settimane a quel ragazzo ebreo che sognava di vivere in Israele. Nidra Poller sul Wall Street Journal scrive che “ciò che più disturba in questa storia è il coinvolgimento di parenti e vicini, al di là del circolo della gang, a cui fu detto dell’ostaggio ebreo e che si precipitarono a partecipare alla tortura”. Divenne tutto più chiaro quando l’allora ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy annunciò che a casa del rapitore erano stati trovati scritti di Hamas e del Palestinian Charity Committee. Intanto la magistratura francese ha ritirato le copie del magazine “Choc” che ha appena pubblicato la fotografia di Halimi in ostaggio, giudicandola “offensiva”. Si vede Ilan imbavagliato, con una pistola alle tempie e una copia di un giornale. La stessa, identica posa d’una famigerata fotografia di sette anni fa con Daniel Pearl, il corrispondente ebreo del Wall Street Journal decapitato da al Qaida in Pakistan. Il New York Times scrive che “in due settimane e mezzo di processo poco è filtrato sul procedimento”. Si svolge a porte chiuse. Quel che è emerso è senz’altro il tentativo del governo francese di occultare l’odio islamico contro gli ebrei come movente della esecuzione di Halimi. Si è parlato poi della stanza in cui venne tenuto Halimi come di un “campo di concentramento fatto in casa”. Il reporter francese Guy Millière scrive che “le grida venivano sentite dai vicini perché erano particolarmente atroci: gli assassini sfregiarono la carne del giovane uomo, gli spezzarono le dita, lo bruciarono con l’acido e alla fine gli hanno dato fuoco con del liquido infiammabile”. La madre di Ilan aggiunge che durante una delle telefonate alla famiglia i sequestratori trasmisero un nastro: “Sono Ilan, Ilan Halimi. Sono figlio di Didier Halimi e di Ruth Halimi. Sono ebreo. E sono tenuto in ostaggio”. “Come si fa a non pensare a Daniel Pearl?”, domanda Ruth. Adrien Barrot, filosofo all’Università di Parigi, ha scritto per le edizioni Michalon uno straordinario libro sul significato dell’uccisione di Halimi. “Non è stato facile fare il verso a Primo Levi”, dice al Foglio a proposito del titolo del suo saggio, “Se questo è un ebreo”. “Si fatica oggi a capire la crescita enorme dell’antisemitismo in Francia dopo l’11 settembre. Io stesso sono di sinistra e per molto tempo faticavo a realizzare questo antisemitismo nuovo che si nutre della cultura antirazzista. Non possiamo criticare gli immigrati musulmani, così finiamo per accusare di razzismo gli stessi ebrei. Dicono che c’è antisemitismo, ma che la colpa è soltanto del sionismo. Lo sentiamo ripetere ogni giorno. L’affaire Halimi significa che il tabù è caduto e l’antisemitismo si sta diffondendo ovunque in Francia”. Barrot critica la visione pedagogica dell’antisemitismo. “E’ troppo astratta, fondata su un’immagine stereotipata. Siamo resi incapaci di identificare ciò che il crimine ‘dei barbari’ ci mette sotto gli occhi, la cellula germinativa dell’orrore che la nostra ‘memoria’ non cessa ritualmente di esorcizzare. Ilan non portava un lungo caffettano nero, un cappello di feltro, le frange rituali, non portava neppure la kippà. Ilan Halimi portava soltanto il suo nome e fu sufficiente a fare di lui una preda. E’ allora che ho compreso che ormai era ridiventato difficile essere ebreo in questo paese”. La retorica pseudoeducativa sull’antisemitismo è incapace di penetrare l’odio che l’islamismo predica contro gli ebrei. “La memoria dell’antisemitismo è evocata per impedire, proibire, riconoscere la realtà attuale, di chiamare le cose con il loro nome. Eccesso, abuso, dittatura della memoria? Memoria inutile? Memoria vuota piuttosto, che ha immesso nella coscienza pubblica soltanto una nozione completamente astratta. Come se i soli buoni ebrei, gli ebrei degni di essere difesi, fossero gli ebrei morti, trasportati in una sfera astratta e pura, non contaminata da tutto ciò che, nella vita, li espone all’odio. C’è una relazione sinistra tra la morte atroce di Ilan Halimi e l’assenza di mobilitazione massiccia che l’ha seguita. La nostra vigilanza veglia sugli ebrei morti ed espone i vivi alla violenza”. Al processo, i carcerieri di Ilan hanno raccontato che la prima settimana del sequestro Halimi l’ha trascorsa in un appartamento prestato ai rapitori da un concierge. Youssouf Fofana ha pensato a decorarlo di tele “con motivi arancione per coprire i muri”. Ammanettato, con addosso soltanto una vestaglia comprata all’Auchan, alimentato con proteine liquide attraverso una cannuccia, Ilan passò così molti giorni. Per entrare nell’appartamento ci voleva un codice: bussare due volte e poi ancora una. Poi Fofana si è caricato Ilan in spalla e l’ha portato nella caldaia: “Pisciava in una bottiglia e faceva la cacca in una busta di plastica”, racconta uno dei carcerieri, Yahia. Le botte sono iniziate dopo che è fallito il primo tentativo di riscatto. Ma gli episodi più significativi sono avvenuti quando si è trattato di scattare le foto destinate a spaventare la famiglia della vittima, compresa la simulazione di una sodomia con il manico della scopa e uno sfregio alla faccia fatto con il coltello di un imputato, Samir Ait Abdelmalek. Il giorno in cui venne giustiziato, racconta Fabrice, “gli ho tagliato i capelli, Zigo e Nabil (altri due carcerieri, ndr) hanno detto che non erano abbastanza corti e l’hanno rasato con un rasoio a due lame”. Gli hanno tagliato anche i peli del corpo. Per non lasciare alcuna traccia nel covo. Ilan venne asciugato e avvolto in un telo viola, comprato al supermercato all’angolo. Fofana è arrivato nel profondo della notte. Quando Ilan è riuscito a guardarlo in faccia, l’islamista lo ha colpito con un coltello alla gola, alla carotide, poi un altro affondo. Poi gli ha dato un taglio alla base del collo, e al fianco. E’ tornato con una tanica di benzina, gli ha versato il combustibile e gli ha dato fuoco. Finiva così la vita di un ragazzo di 23 anni nel primo paese nella storia ad aver dato agli ebrei diritti civili. Ieri, in tribunale, Ruth ripeteva: “Chiedo ogni giorno a mio figlio di perdonarmi”.

di Giulio Meotti

martedì 2 giugno 2009

Ruth oggi verrebbe rifiutata

The Jerusalem Post Internet Edition
In praise of conversion
Jun. 1, 2009
REUVEN HAMMER , THE JERUSALEM POST
The Book of Ruth, which we have just read on Shavuot, is often considered to be the story of the first convert to Judaism. Although the book itself contains no description of a formal conversion such as we practice today, there is no doubt that Ruth takes the step of joining herself both to the people of Israel and to the religion of Israel when she says, "Your people will be my people, your God will be my God" (Ruth 1:16). Throughout the book Ruth is praised for her acts of hessed - her loyalty and compassion as expressed in her help to Naomi and her desire to continue the family line (Ruth 3:10). As the ancestress of David and therefore of the entire line of Davidic kings that later tradition said would lead to the messiah, she is worthy of praise and plays a central role in Judaism, only slightly less than that of the matriarchs themselves. It is very likely that one of the reasons for the writing of the book was to trace the ancestry of David. The fact that it proudly presents this woman who came from a different people but joined ours - a convert - as David's great-grandmother demonstrates a positive attitude toward such an act. Yet Ruth the Moabitess would have a difficult time acquiring the right to make aliya today and to attain Israeli citizenship. In fact her chances would be close to zero. We can imagine Ruth applying to the Interior Ministry where she would be met with a series of questions reflecting the ministry's current proposals for conversion requirements: Please show us your conversion certificate. What rabbinical court issued it? What Jewish community does it represent? No beit din? So who converted you? Where did you study and what? Was the program a year long and did it consist of at least 360 hours? No course at all? You said something about "your people, my people, your God, my God" and that was it? What is this, a joke? Did you remain in the Moab Jewish community for a year afterward? No? You say you had a Jewish husband - OK - but he's dead so that does not give you any rights. No, mothers-in-law don't count. Look, it's pretty obvious that you're simply one of those foreign workers looking for a job in agriculture that pays better than what you could earn in Moab. That's exactly what we're afraid of. Back to Moab with you. SO MUCH for David and the messiah! Obviously at the time of the writing of the Book of Ruth, conversion as we know it did not exist - although later interpretations sought to read it into the book. See, for example, Yevamot 47b. The Torah envisions non-Israelites living in the land and after a period of generations some of them could become part of "the community of the Lord" (see Deuteronomy 23:4). The Book of Ruth seems to posit this happening immediately when the person actively desires it. During and after the Second Temple period Jewish law gradually created conversion as we know it, with a formal ceremony before a court. But even the requirements of Jewish law in that regard are hardly those of the Interior Ministry or the Chief Rabbinate. The basic requirements are that the candidate be taught some of the laws, declare acceptance of the mitzvot and of God's sovereignty, undergo immersion and, for males, circumcision (see Yevamot 47:a-b, Shulhan Aruch, Yoreh Deah 268; Maimonides, Issurei Biah 13). There is no provision for retroactively canceling the conversion if later they are found not to be observing each and every one of the mitzvot. Then they become like the rest of us - Jews who transgress but remain Jews (Maimonides ibid 13:17). Numerous studies have shown without any question whatsoever that the rules of conversion that traditional Jewish law has codified are in truth quite lenient. WHY THEN do we find it so difficult to accept converts today - particularly in Israel? Why are we so stringent? What is our problem? The most well known rabbinic stories of converts are those concerning people who came first to Shammai with unreasonable requests - such as not having to learn the Oral Torah, learning the whole Torah on one foot or becoming high priest. Shammai angrily rejected them. They then turned to Hillel who patiently taught them and accepted them. These converts then said, "Shammai's impatience sought to drive us from the world, but Hillel's gentleness brought us under the wings of the Divine Presence" (Shabbat 31a.). Why is it that so many rabbinic authorities today seem intent on imitating Shammai when it is obvious that the tradition is lauding the actions of Hillel? Although conversion was quite common in the Second Temple period - Judaism was, after all, the only non-pagan, monotheistic religion - it virtually ceased when Christianity became dominant and would not permit Judaizing. In the modern period, when religion and state in the Western world were separated, conversion to Judaism became possible again but many religious authorities frowned on it. They felt that it was basically a way to bring gentile wives into Judaism and in many places, such as South America, they banned conversion altogether. They may have hoped to thus discourage intermarriage, but in reality the only result was that the children of these marriages were not brought up as Jews and whole generations were lost to Judaism. ONE WOULD have thought that in Israel the attitude would be different. And indeed under such chief rabbis as Benzion Uziel, the Sefardi chief rabbi who died in 1953, such reasonable conversions had taken place. When Jews from Eastern Europe and the USSR first began to emerge and were brought to camps in Austria, rapid but proper conversions took place there quietly. The spirit of Hillel seemed to have risen again. Those days are long gone. Under the influence of an ever increasingly haredi rabbinate here and with pressure from haredi rabbinical groups in Europe, conversions have become more and more difficult in Israel. Furthermore the Chief Rabbinate has attempted with some success to control Orthodox conversions in America as well and to impose its stringent standards there. The fact that Israeli citizenship may be determined by conversion brings the state into the picture in ways that are otherwise inappropriate. Conversion is a religious matter. Here it has become a political matter. THE INTERIOR MINISTRY has sometimes been even more stringent than the rabbinate. It has done its best to ignore or negate rulings by the Supreme Court regarding the acceptance of converts from non-Orthodox rabbinical courts, attempting to impose regulations that have no sanction in law. It has imposed draconian rules on many an Orthodox conversion as well. There may be legitimate concerns about people who would like to attain citizenship through conversion for reasons that are less than pure, mainly economic, but there is absolutely no proof that any recognized conversion courts here or abroad have fallen prey to this. There is a paranoia here that exceeds rational bounds. We are now a small people, much smaller than we ought to be. The well known demographer Sergio Della Pergola recently wrote that were it not for the Holocaust we would today be 36 million strong. That would still be small but better than what we have. Why should we be so reluctant to have others join us? We are also a small country, suffering from a demographic problem. Why would it not be better for Israel if the 300,000 non-Jewish Russians - or even half of them - were to join the Jewish people? Would it not be better for us for sincere converts to make aliya and join in strengthening our nation? We are allowing a combination of bureaucratic incompetence, unjustified paranoia, overly and unnecessarily strict application of halachic norms and Diaspora-originated fear of the non-Jew to result in counterproductive conduct. We are, in short, cutting off our noses to spite our faces. MY OWN INVOLVEMENT with candidates for conversion both in this country and elsewhere has been overwhelmingly positive. With few exceptions, those with whom I have been in contact have been sincere in their desire to become part of Judaism and of the people of Israel and join our destiny. I have seen many who have Jewish ancestry and wish to reclaim it. I consider it to be a true mitzva to bring to Judaism someone whose ancestors, either immediate or in the distant past, were lost to Judaism. There are others who suddenly discovered Judaism and sincerely desire to be part of it. There are those from the former Soviet Union who live here and want to be part of the Jewish people. Should we discourage them or should we be willing to answer their call? It is regrettable that conversion, which has played an important role in Judaism, should today be such a matter of controversy. After all, fancifully and anachronistically our tradition has even read conversion much further back than Ruth in our history. It asserts that Abraham and Sarah led conversion classes. He taught the men, she the women. (Genesis Rabba 39:5).
Furthermore in a very real sense we and our ancient ancestors were the first converts when we stood at Sinai - at Shavuot - and accepted upon ourselves the yoke of God's sovereignty and the yoke of the commandments, pledging to become God's holy people. Maimonides even insists that the people went through both circumcision and immersion before entering that covenant and that this set the pattern for all future converts (Issurei Biah 13:1-4). So in a profound sense we are all converts - or the descendants of converts. As such we should welcome those who wish to follow in our ways. It is time to let the spirit of Hillel reign once again.

lunedì 1 giugno 2009

The Clown’s Mask Slips (The Times)


Berlusconi must answer allegations of womanising and questions about inappropriate behaviour. The quality of government is a not a private matter

The most distasteful aspect of Silvio Berlusconi’s behaviour is not that he is a chauvinist buffoon. Nor is it that he cavorts with women more than 50 years younger than himself, abusing his position to offer them jobs as models, personal assistants or even, absurdly, candidates for the European Parliament. What is most shocking is the utter contempt with which he treats the Italian public.

The ageing Lothario may find it amusing, or even perhaps daring, to act the playboy, boasting of his conquests, humiliating his wife and making comments that to many women are grotesquely inappropriate. He is not the first or the only one whose undignified behaviour is inappropriate to his office. But when legitimate questions are asked about relationships that touch on the scandalous and newspapers challenge him to explain associations that, at best, are puzzling, the clown’s mask slips. He threatens those newspapers and televisions stations that he controls, invokes the law to protect his “privacy”, issues evasive and contradictory statements and then melodramatically promises to resign if he is caught lying.

Mr Berlusconi’s private life is, of course, private. But as President Clinton found, scandal does not become high office. To his critics, Mr Berlusconi retorts that he still commands high popularity ratings, is very much in control of his Government and will not be intimidated by what he calls opposition attempts to smear him. Many may also say that Italy is not America: that the puritan ethic framing standards in the US has never dominated Italian public life, and that few Italians are shocked by womanising. This is patronising nonsense. Italians understand just as well as Americans what is and what is not acceptable. And like Americans, they regard a cover-up as contemptible.

Few media outlets in Italy are able to make this point without fear of retribution. But to its credit La Repubblica has continually raised questions about the Prime Minister’s relationship with the 18-year-old Noemi Letizia, whose birthday gift of a necklace was the pretext for Mrs Berlusconi’s divorce action. To most of these questions, on the lips of every bemused Italian voter, there has been no satisfactory answer. When and how did he meet her family? Did Mr Berlusconi ask for photographs from a model agency and initiate contact with Ms Letizia? What truth is there in reports that dozens of young women were invited to parties at his Sardinian villa?

Mr Berlusconi has promised to explain everything to parliament. But he can hardly have reassured his critics with his weekend injunction blocking publication of about 700 photographs purporting to show what went on at these parties. Nor is he helped by his hapless Foreign Minister, who attempted to defend his boss by pointing out that the age of consent in Italy was 14 — as if this were relevant.

Does it all matter? Some Italians will say no. Others will say it is no business of outsiders. But Italian voters, in the run-up to the European elections, ought to reflect on how their Government is run, on the candidates thought suitable for Strasbourg and on the level of prime ministerial candour during political and economic turmoil.

It concerns others too. Italy hosts the G8 meeting this year. Important discussions are taking place in that forum, where Western governments are pressing for greater co-operation in combating terrorism and international crime. Mr Berlusconi sees himself as a friend of Vladimir Putin. His country is an important member of Nato. It is also part of the eurozone, which is being tested by the global financial crisis. It is not only Italian voters who wonder what is going on. So do Italy’s nonplussed allies.