- CONSENSUS INTERNAZIONALE:
ADHD E ABUSO NELLA PRESCRIZIONE DI PSICOFARMACI AI MINORI
(gennaio 2005)
Premessa
"Giù le mani dai bambini" ® è la più visibile campagna per la difesa del diritto alla salute dei bambini mai organizzata in Italia, ed in effetti è quella attualmente in fase di più rapida espansione se paragonata ad analoghe iniziative in Europa. La campagna ha come scopo la completa e corretta informazione della popolazione (insegnanti, genitori, gli stessi adolescenti, ecc.) sul tema degli abusi nella somministrazione di psicofarmaci a bambini ed adolescenti, che con oltre 11 milioni di bambini cronicamente dipendenti da anfetamine nei soli Stati Uniti, è ormai una vera e propria emergenza sanitaria, importata anche in Italia (per maggiori informazioni, leggi quanto riportato sul nostro sito http://www.giulemanidaibambini.org/.
L'iniziativa, promossa dalla rete dei volontari ospedalieri, che ha riunito in un Comitato Associazioni ed Enti rappresentativi di oltre 6 milioni di Italiani, è patrocinata da RAI – Radio Televisione Italiana. Hanno aderito alla campagna volti famosi del mondo dello spettacolo e della scienza, da Ray Charles (recentemente mancato) a Beppe Grillo, e molti altri, come risulta nella sezione Testimonial del sito. La Campagna si è dotata di un qualificato Comitato Scientifico ed ha avviato un'articolata serie di interventi divulgativi sul territorio.
L'iniziativa è non a scopo di lucro, apartitica, non confessionale. Il portale informativo su internet, gestito dai nostri volontari, è attualmente il più ricco ed articolato disponibile in Italia su questi temi. La sindrome denominata “Disturbo di Attenzione e/o Iperattivà” (ADHD) è stata oggetto di una quantità impressionante di indagini sperimentali e di studi scientifici. La soluzione di elezione per il trattamento di questo disordine è tutt'ora quella farmacologica (stimolanti a base anfetaminica, ma non solo), ed in misura molto meno significativa la pedagogia clinica, la psicoterapia e gli interventi sociali autonomi.
Le risorse finanziarie sono state concentrate prevalentemente sulla ricerca – in larga parte non indipendente, in quanto finanziata con fondi dei produttori stessi - mirata ad individuare le presunte cause biologiche del disagio nonché gli effetti degli interventi farmacologici, penalizzando la ricerca sulle cause psicologiche, ambientali e sociali, nonché gli interventi pedagogici, psicoterapeutici e sociali autonomi.
I metodi sperimentali utilizzati ed i risultati ottenuti sono stati oggetto di accalorati dibattiti ed accese controversie da parte degli addetti ai lavori, e negli ultimi anni anche dei media e del grande pubblico, ed hanno generato problemi tutt'ora irrisolti. L'attenzione – e l'assenza di problemi di carattere emozionale – sono i pre-requisiti generali per ogni tipo di apprendimento, e l'individuazione di una patologia dell'attenzione e del movimento che inibisce l'apprendimento rappresenta per contro una codifica che genera conseguenze drammatiche sul piano personale, familiare, scolastico e sociale.
I firmatari del presente documento, esperti di fama in ambito clinico e sperimentale, desiderano, con onestà intellettuale e competenza professionale, fare il punto della situazione alla luce anche delle più recenti e/o meno conosciute risultanze sperimentali scientificamente accreditate, nonché dei dibattiti accademici trascorsi ed in atto, allo scopo di fare chiarezza su un tema di primo piano nel panorama del diritto alla salute dei minori, che riguarda la comunità scientifica e la società civile tutta, stimolando con l'occasione una metodologia di approccio eticamente più corretta nei confronti di un problema che da mezzo secolo è vittima di metodologie di approccio sovente infruttuose.
L'ADHD come malattia
È consuetudine consolidata definire l'ADHD – in termini di causalità primaria – come una “malattia geneticamente determinata”, relegando le cause psicosociali a “concause minori” se non a semplici “cartine di tornasole” in grado di far emergere quanto già determinato a livello genetico, influenzandone ne più ne meno i tempi e modi della comparsa della sintomatologia. In proposito va ribadito che non è stata ancora dimostrata sperimentalmente la causalità diretta di alcun gene o pool di geni, e che nessun marcatore biologico (fenotipo) è stato individuato con certezza.
Il corpo di ricerche sui gemelli omozigoti e dizigoti e sui fratelli è fortemente viziato dalla non dimostrata presunzione che l'ambiente in cui i bambini sono cresciuti sia sempre uguale. E' virtualmente impossibile che questo accada. In aggiunta i risultati di tali ricerche sono viziati dal fatto che i geni dirigono la sintesi delle proteine, che a loro volta sono influenzate da fattori ambientali quali lo stress, i traumi, la carenza di sensibilità parentale.
La presenza negli alberi genealogici di questo genere di disturbo non rappresenta una prova di per se scientificamente accettabile della valenza genetica dell'ADHD, in quanto non sono state tenute sotto debito controllo le variabili “apprendimento per imitazione” e “apprendimento per condizionamento”, i cui potenti effetti nel plasmare i comportamenti, da quasi un secolo, sono stati sperimentalmente dimostrati dalla dottrina del Comportamentismo, oltre ogni legittimo dubbio.
In merito alla più recente ed accreditata ricerca della scuola della psichiatria organicista «F. Xavier Castellanos e altri, Developmental Trajectories of Brain Volume Abnormalities in Children and Adolescents With Attention- Deficit/Hyperactivity Disorder , Journal of the American Medical Association (JAMA 2002;288:1740-1748)», rimarchiamo che Castellanos, in una intervista rilasciata a FRONTLINE il 10 ottobre 2002, dopo la pubblicazione di questa ricerca, alla domanda dell'intervistatore
«Quanto siamo prossimi ad individuare un marcatore biologico per l'ADHD?”» risponde
«Non lo so, non penso che lo sapremo fintanto che non lo troveremo...ci piacerebbe trovare un marcatore biologico, ci piacerebbe trovare qualche riscontro oggettivo, qualcosa che ci dia la conferma di quanto abbiamo capito su come funziona l'ADHD. Il problema è che cerchiamo nel buio, e non sappiamo dove ci condurrà la ricerca. La mia personale opinione è che brancoleremo per i prossimi 3 o 5 anni…»
La tesi della malattia resta pertanto una mera ipotesi, e l'utilizzo di termini quali «malattia» e «malattia mentale» sono quindi a tutt'oggi illegittimi sul piano scientifico. L'ADHD è, nella migliore delle ipotesi, un semplice elenco di comportamenti disfunzionali, troppo poco per identificare una malattia. L'insufficiente definizione di questi comportamenti-sintomo dal punto di vista operazionale, rende persino impossibile configurare nettamente l'ADHD come una psicopatologia. Sulla base delle risultanze scientifiche attualmente disponibili, la diagnosi di ADHD rischia di essere sostenuta da motivazioni di carattere principalmente economico e non indirizzata al reale beneficio del bambino/paziente.
La diagnostica dell'ADHD
Coerentemente con quanto esposto in merito al concetto di malattia, la diagnostica utilizzata è vistosamente carente. Il manuale diagnostico dell'APA rimarca nel DSM-IV che:
« ... non vi sono test di laboratorio confermati come diagnostici» per «il Disturbo del Deficit d'Attenzione/Iperattività . »
Nel documento «2000 American Academy of Pediatrics Annual Meeting Attention Deficit Hyperactivity Disorder: Current Diagnosis and Treatment, Mark L. Wolraich, MD», viene ribadito:
«Comunque la diagnosi dell'ADHD resta legata a criteri diagnostici limitati. La diagnosi dipende dall'osservazione del comportamento dei bambini da parte di diverse fonti, in particolare genitori ed insegnanti, spesso discordanti tra loro, senza un metodo chiaro per risolvere queste discrepanze. Una delle fonti di discrepanza è il fatto che i comportamenti sono influenzati dall'ambiente. La classe scolastica quindi potrebbe dare adito a comportamenti diversi da quanto osservato a casa, inoltre i rapporti delle osservazioni sono spesso soggettivi a causa dell'assenza di specifiche competenze per l'osservazione dei comportamenti stessi, gli osservatori dovrebbero usare il loro proprio metodo personale di giudizio. Inoltre i criteri sono gli stessi indipendentemente da età e stato di sviluppo, mentre in realtà il comportamento dei bambini varia anche in base al loro stato di crescita” . »
Se si analizzano con attenzione i commenti ai test sperimentali che gli specialisti utilizzano per determinare le soglie di attenzione ed iperattività, emergono dati che ci inducono a riconsiderare le nostre convinzioni. Emerge che i bambini sono in grado di prestare attenzione ai compiti loro graditi, mentre non lo sono per quelli rilevanti per l'apprendimento, se nella loro percezione sono «meno graditi». Si parla pertanto di “carenza di attenzione in un contesto di scarsa motivazione” o di «ansia da apprendimento», nonché di «comportamenti iperattivi» in un contesto famigliare in cui emergono gravi psicopatologie.
Pare almeno discutibile che tutto questo possa tout-court essere trasformato in una malattia di carattere biologico, mentre appare evidente come siano implicate dinamiche personali e sociali di varia natura che sono state a tutt'oggi in larga parte trascurate dall'indagine scientifica. A fronte di disturbi dell'attenzione e di iperattività, sarebbe necessario effettuare un serio screening medico standardizzato ed un'approfondita analisi delle relazioni sociali dei piccoli pazienti, del loro reale grado di apprendimento scolastico e dei molti altri fattori che possono essere alla causa dei comportamenti anormali del bambino. Si deve pertanto concludere che la diagnostica non ha ancora una legittimazione scientifica tale da permettere una diagnosi certa al di là di ogni ragionevole dubbio.
La terapia farmacologica e i suoi effetti
La cura è un procedimento terapeutico che, rimuovendo le cause che hanno generato la patologia, porta alla guarigione. Il sollievo e la remissione dei sintomi, per quanto siano eventi importanti, non qualificano un intervento terapeutico come cura. Sia la cura che il trattamento sintomatico devono comunque garantire il rispetto della dignità umana e l'integrità psicofisica, condizione che la maggior parte degli psicofarmaci attualmente in commercio non sono in grado di rispettare. Non ci sono dubbi che tali prodotti farmaceutici hanno effetti collaterali anche gravi, inclusa la morte del paziente.
I loro effetti si manifestano con la soppressione dei sintomi in presenza di assunzione regolare del farmaco, in quanto l'interruzione del trattamento farmacologico fa riemergere la situazione antecedente al periodo di regolare assunzione. Questo è il motivo per cui si rende necessaria la somministrazione a lungo termine, anche quando essa è sconsigliata dagli stessi specialisti ed a volte dalle stesse industrie produttrici.
In un documento datato Dicembre 1999 «Long-Term Effects of Stimulant Medications on the Brain» il NIMH (National Institute of Mental Health) dichiara che
«Gli stimolanti sopprimono i sintomi dell'ADHD ma non curano il disordine, e come risultato i bambini etichettati ADHD sono spesso trattati con stimolanti per molti anni…»
La terapia con questi prodotti farmaceutici di per se non migliora il rendimento scolastico dei bambini, in quanto i procedimenti legati all'apprendimento sono qualcosa di molto più complesso del semplice “prestare attenzione”. Afferma il Professore Cesare Cornoldi, ordinario di psicologia all'Università di Padova, in merito alla prescrizione di Metilfenidato (Ritalin):
« E' bene allora ricordare che si possono registrare effetti positivi nel controllo dell'impulsività, dell'iperattività e dell'attenzione, per la durata della somministrazione del farmaco; i disturbi invece dell'apprendimento, della condotta e la difficoltà di interazione sociale richiedono interventi di natura diversa. Generalmente comunque la terapia farmacologica è cronica, perché se viene sospesa la somministrazione del farmaco – in assenza di interventi di tipo psicologico e pedagogico-didattico - il bambino in breve tempo tende a ripresentare la stessa sintomatologia. » (Cesare Cornoldi, Iperattività e autoregolazione cognitiva, Erickson, 2001, pag. 188.)
Nel 1993 il Dipartimento dell'Educazione degli USA incaricò James M. Swanson, direttore del centro studi sull'ADHD all'Università della California, Irvine (UCI), noto sostenitore della tesi biologica dell'ADHD e favorevole all'uso degli psicofarmaci sui minori, di condurre una ricerca che facesse il punto della situazione in merito all'efficacia del Ritalin. Furono consultate 300 riviste (9000 articoli), spaziando su 55 anni di letteratura.
Questi i risultati, oltremodo deludenti:
1. i benefici a lungo termine non sono stati verificati sperimentalmente;
2. i benefici sul breve termine degli stimolanti non devono essere considerati una soluzione permanente sui sintomi cronici dell'ADHD;
3. gli stimolanti possono migliorare l'apprendimento in alcuni casi ma danneggiarlo in altri;
4. nella prassi le dosi prescritte possono essere troppo alte per l'effetto ottimale sull'apprendimento, e la durata dell'effetto troppo breve per agire sul risultato scolastico;
5. non ci sono grandi effetti sulle abilità e processi mentali superiori, genitori e insegnanti non devono aspettarsi significativi miglioramenti nello studio o in abilità atletiche, abilità sociali, apprendimento di nuovi concetti;
6. nessun miglioramento negli aggiustamenti a lungo termine, insegnanti e genitori non devono aspettarsi miglioramenti sotto questo profilo.
(Tratto da “ Talking Back To Ritalin ”, 2001, Peter R. Breggin)
Si può pertanto concludere che gli psicofarmaci non migliorano l'apprendimento scolastico, che non curano la presunta patologia ADHD, piuttosto agiscono sui sintomi permettendo una migliore accettazione sociale dei bambini da parte degli adulti. Poca attenzione è stata dedicata a studiare le ripercussioni psicopatologiche che i trattamenti farmacologici hanno sui bambini, ed anche nuove molecole commercializzate come “novità”, apparentemente prive degli effetti collaterali lamentati per gli stimolanti, sono in realtà banali “rivisitazioni” di psicofarmaci tristemente conosciuti in passato per i potenziali effetti collaterali dannosi nel medio-lungo periodo. I casi meritevoli di attenzione sotto il profilo clinico – sono una esigua minoranza – dovrebbero essere prioritariamente trattati con strumenti di carattere pedagogico (pedagogia tradizionale e clinica), strumenti per i quali è in corso anche in Italia una vera e propria codificazione sotto forma di protocolli standard di intervento specificatamente mirati.
Reinterpretare i dati
Negli ultimi anni sono comparse, sempre più numerose, ricerche che individuano correlazioni di varia natura con l'ADHD. Si tratta di patologie fisiche, reazioni a terapie mediche, condizioni ambientali di vario tipo e di gravidanza sfavorevoli, psicopatologie, in grado di mimare la sintomatologia dell'ADHD raggiungendo i medesimi criteri diagnostici. La nosografia ADHD ha di fatto l'effetto di depistare i medici che omettono di indagare queste cause, con un danno potenzialmente rilevante per la salute del minore.
Non possiamo dimenticare che studiare e stare fermi ed attenti a scuola sono condizioni che richiedono a tutti i bambini un sacrificio che viene diversamente assolto in armonia con la curva di Gauss, e che le variabili che possono spiegare tali variazioni sono talmente numerose che per ora non siamo in grado di valutarle ed esprimere giudizi clinici.
Tutte queste correlazioni che sono emerse possono essere reinterpretate come cause? Possiamo ipotizzare che la sintomatologia ADHD sia in realtà una costellazione aspecifica di sintomi, indicatori di un disagio della persona che rimandano alle più svariate cause?
Possiamo abolire la nosografia ADHD con il suo fardello ideologico così come anni fa si fece con l'omosessualità (originariamente, come a tutti noto, classificata come malattia mentale al pari dell' ADHD)?
Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte, una ipotesi che merita tutta l'attenzione scientifica di cui siamo capaci, un diverso modo di fare sperimentazione, ed un approccio eticamente diverso all'utilizzo degli psicofarmaci su bambini ed adolescenti, che dovrebbe essere ispirato alla massima cautela e come ultima risorsa in casi estremi, al fine di prevenire e contenere i possibili rischi di abuso su larga scala, in più occasioni documentati sia nella letteratura scientifica che da autorevoli fonti di informazione. - http://www.giulemanidaibambini.org/
lunedì 28 maggio 2007
Non drogare il tuo bambino, parlagli
venerdì 25 maggio 2007
Custodia comune: un bimbo tra due sedie
By Tzafi Saar (Haaretz)
When T. told her husband she wanted a divorce, his immediate reaction was: I'm suing for custody of the children. Immediately afterward, he admitted he had no intention of raising their three children. "I'm suing to make you suffer," he told her. The couple became entrenched in a slew of meetings with lawyers and social workers, underwent a "parental capability" test and engaged in lengthy discussions and arguments. "I can keep this going for five years," the husband told T. "Do you want this to be over in a year? Then pay up." T. paid him NIS 100,000 to withdraw his custody claims, which he neither sought nor intended to enforce anyway. "It's not as if I had money," she said. "We sold our joint apartment, and he received another NIS 100,000 from my half."
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The blackmail didn't end there. When the couple approached the rabbinical court with the signed divorce papers, the husband suddenly demanded a reconciliation. In the next round of talks, when he repeated this claim, T. broke down and paid him another several thousand shekels - simply to get the divorce she so longed for. Surprisingly, T., who lives in Herzliya, does not find her story appalling. "When it's only about money, it's not that bad," she says. In the end, the children's father received minimal visitation rights, just as he wished: twice a week and every other Saturday. Not all men who get divorced act like T.'s ex-husband. There are fathers who wish to remain deeply involved in their children's lives after the divorce. Men's attitudes toward parenthood have changed significantly over the past several decades, and so have social perceptions regarding the father's role in a child's life. And yet, T.'s case is not all that uncommon: Family lawyers say that many men take advantage of this social change, especially when the woman initiates the divorce, and he use it as a weapon to hurt her, both emotionally and financially. And it works. According to the lawyers, women come into their office completely petrified: "He'll take away my children." This is usually an unfounded fear. Courts generally give custody of the children to the mother, except in rare cases when her lack of ability to function can severely harm them. But the threat does the job - a woman who fears losing custody over her children would prefer to fork over some of her wealth. Attorney Sharon Freeling, an expert in family law, states that "in many cases when this threat arises, it doesn't reach an actual lawsuit. It's part of the tempestuous feud between the couple." Freeling tells of a woman from northern Israel whom she represented in the past. "Both partners are professionals. The mother had a flexible schedule and was home more in the afternoons. The father worked around the clock. In the beginning of the divorce process, which the woman initiated, he told her: 'You'll be sorry. I'll make sure to take your child away from you.' We didn't give up on the possession. We exposed the father's motives before the court: He was questioned about how he planned to reorganize his life to raise the child, in terms of work schedule and such. He didn't have the answers. It was obvious that the child would be in the hands of a nanny or his grandparents, and wouldn't have sufficient parental presence." The change in the way fatherhood is perceived has led to the joint custody arrangement. Most divorce settlements places custody in the hands of one of the parents, usually the mother, and visitation rights are determined for the other parent. However, in the case of joint custody, there is an equal division of the day-to-day care of the children. They spend an equal amount of time with each parent, and have two homes. In Israel, joint custody agreements are uncommon. This agreement flourished in the rest of the world for years, as awareness grew of the pivotal role fathers play in children's lives. However, the trend is now on the decline in most Western nations. Studies have shown that joint custody trends, in many cases, put the child at a disadvantage; the child lacked a permanent home and had to wander back and forth between two houses. A study conducted on 100 children of divorced parents in San Francisco found that children in joint custody tended to be more depressed, introverted, uncommunicative and aggressive. In any case, joint custody is only possible if both parents genuinely want it and communicate well with one another. They must also commit to living near one another for years to allow the child to get to school from each of the two homes and maintain a normal social life. In many cases, Israeli courts agreed to this kind of arrangement if both parents requested it in their divorce settlement. Attorney Haya Singer, an expert in inheritance and family law, claims there are cases, in which the court refers the family to social workers to determine if the arrangement is compatible with the child's well-being, the parents understand its implications, and whether or not one of the sides has been coerced into accepting the joint custody terms. Those in favor of joint custody use the principle of equality and feminist terminology to advocate their case. Why is the mother the preferred guardian, they wonder. The father is no less important. They claim that, in the past, when men worked and women took care of the children, there was logic in the arrangement of the mother guardian, but now women work and there's no reason why they should have an advantage in the parenting domain. This is discrimination against men. Women's groups have expressed their stance in the past about dismissing this law (which in the end remained intact): There is no equality in the real world; in the majority of cases, the primary caretaker in the marriage is the mother; men earn more money than women and can therefore hire better lawyers in the divorce process; divorce laws in Israel are biased and discriminate against women; lawyers say that many of the fathers who say they support the principle of equality during their divorce, didn't necessarily support it during the years they were married. Edith Honigman, a social worker and family therapist, says there is sometimes confusion between joint parenting, which she says is a wonderful thing, and joint custody, which is often incompatible with the parents' communication abilities. Attorney Yoav Tal, an expert in family law, says that since the father's significant involvement serves the well-being of the child, then possibly a change in the law is advisable: Pro-women legislation, he comments, also improved their situation in other fields. Sometimes the pursuit of custody or joint custody is genuine, but it is often merely a tool used to decrease alimonies. There is a wide range of settlements: There are joint custody arrangements in which alimonies are decreased by a little, and there are cases in which parents take on joint financial responsibility for the children's needs - without alimonies. In one divorce case, Judge Yael Willner of the Haifa District Court ruled that "a decrease in alimony rates bears the risk that joint custody will be considered more financially rewarding and will open up a new battlefront between the parents in the custody issue. In the heat of battle, the children's well-being will be forgotten." Is Israeli society even interested in a change on this issue? A survey carried out by the New Family Organization revealed a majority of Israelis, both men and women, think that there's nothing like a mother's love. Some 46.6 percent believe the mother should be the guardian (50.9 percent of the women and 41 percent of the men), and only 1.7 percent feel the father is the one suitable for the job (2.5 percent of the men and 1 percent of the women). Some 30.5 percent support dividing responsibilities equally between both parents. However, a father's involvement is necessary, even if there are cases in which recognition of such is put to bad use. "We definitely need to act to solidify the father's status in the life of a child following divorce," says Freeling. "But in the face of such studies which show that even in dual-career families, the mother is primarily the one bearing the burden of child-raising, it would be superficial to decide on joint custody after the divorce, when there was no basis for this in the marriage. The change should first take place in the existing family cell while married, and only then be implemented in the wake of divorce."
When T. told her husband she wanted a divorce, his immediate reaction was: I'm suing for custody of the children. Immediately afterward, he admitted he had no intention of raising their three children. "I'm suing to make you suffer," he told her. The couple became entrenched in a slew of meetings with lawyers and social workers, underwent a "parental capability" test and engaged in lengthy discussions and arguments. "I can keep this going for five years," the husband told T. "Do you want this to be over in a year? Then pay up." T. paid him NIS 100,000 to withdraw his custody claims, which he neither sought nor intended to enforce anyway. "It's not as if I had money," she said. "We sold our joint apartment, and he received another NIS 100,000 from my half."
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The blackmail didn't end there. When the couple approached the rabbinical court with the signed divorce papers, the husband suddenly demanded a reconciliation. In the next round of talks, when he repeated this claim, T. broke down and paid him another several thousand shekels - simply to get the divorce she so longed for. Surprisingly, T., who lives in Herzliya, does not find her story appalling. "When it's only about money, it's not that bad," she says. In the end, the children's father received minimal visitation rights, just as he wished: twice a week and every other Saturday. Not all men who get divorced act like T.'s ex-husband. There are fathers who wish to remain deeply involved in their children's lives after the divorce. Men's attitudes toward parenthood have changed significantly over the past several decades, and so have social perceptions regarding the father's role in a child's life. And yet, T.'s case is not all that uncommon: Family lawyers say that many men take advantage of this social change, especially when the woman initiates the divorce, and he use it as a weapon to hurt her, both emotionally and financially. And it works. According to the lawyers, women come into their office completely petrified: "He'll take away my children." This is usually an unfounded fear. Courts generally give custody of the children to the mother, except in rare cases when her lack of ability to function can severely harm them. But the threat does the job - a woman who fears losing custody over her children would prefer to fork over some of her wealth. Attorney Sharon Freeling, an expert in family law, states that "in many cases when this threat arises, it doesn't reach an actual lawsuit. It's part of the tempestuous feud between the couple." Freeling tells of a woman from northern Israel whom she represented in the past. "Both partners are professionals. The mother had a flexible schedule and was home more in the afternoons. The father worked around the clock. In the beginning of the divorce process, which the woman initiated, he told her: 'You'll be sorry. I'll make sure to take your child away from you.' We didn't give up on the possession. We exposed the father's motives before the court: He was questioned about how he planned to reorganize his life to raise the child, in terms of work schedule and such. He didn't have the answers. It was obvious that the child would be in the hands of a nanny or his grandparents, and wouldn't have sufficient parental presence." The change in the way fatherhood is perceived has led to the joint custody arrangement. Most divorce settlements places custody in the hands of one of the parents, usually the mother, and visitation rights are determined for the other parent. However, in the case of joint custody, there is an equal division of the day-to-day care of the children. They spend an equal amount of time with each parent, and have two homes. In Israel, joint custody agreements are uncommon. This agreement flourished in the rest of the world for years, as awareness grew of the pivotal role fathers play in children's lives. However, the trend is now on the decline in most Western nations. Studies have shown that joint custody trends, in many cases, put the child at a disadvantage; the child lacked a permanent home and had to wander back and forth between two houses. A study conducted on 100 children of divorced parents in San Francisco found that children in joint custody tended to be more depressed, introverted, uncommunicative and aggressive. In any case, joint custody is only possible if both parents genuinely want it and communicate well with one another. They must also commit to living near one another for years to allow the child to get to school from each of the two homes and maintain a normal social life. In many cases, Israeli courts agreed to this kind of arrangement if both parents requested it in their divorce settlement. Attorney Haya Singer, an expert in inheritance and family law, claims there are cases, in which the court refers the family to social workers to determine if the arrangement is compatible with the child's well-being, the parents understand its implications, and whether or not one of the sides has been coerced into accepting the joint custody terms. Those in favor of joint custody use the principle of equality and feminist terminology to advocate their case. Why is the mother the preferred guardian, they wonder. The father is no less important. They claim that, in the past, when men worked and women took care of the children, there was logic in the arrangement of the mother guardian, but now women work and there's no reason why they should have an advantage in the parenting domain. This is discrimination against men. Women's groups have expressed their stance in the past about dismissing this law (which in the end remained intact): There is no equality in the real world; in the majority of cases, the primary caretaker in the marriage is the mother; men earn more money than women and can therefore hire better lawyers in the divorce process; divorce laws in Israel are biased and discriminate against women; lawyers say that many of the fathers who say they support the principle of equality during their divorce, didn't necessarily support it during the years they were married. Edith Honigman, a social worker and family therapist, says there is sometimes confusion between joint parenting, which she says is a wonderful thing, and joint custody, which is often incompatible with the parents' communication abilities. Attorney Yoav Tal, an expert in family law, says that since the father's significant involvement serves the well-being of the child, then possibly a change in the law is advisable: Pro-women legislation, he comments, also improved their situation in other fields. Sometimes the pursuit of custody or joint custody is genuine, but it is often merely a tool used to decrease alimonies. There is a wide range of settlements: There are joint custody arrangements in which alimonies are decreased by a little, and there are cases in which parents take on joint financial responsibility for the children's needs - without alimonies. In one divorce case, Judge Yael Willner of the Haifa District Court ruled that "a decrease in alimony rates bears the risk that joint custody will be considered more financially rewarding and will open up a new battlefront between the parents in the custody issue. In the heat of battle, the children's well-being will be forgotten." Is Israeli society even interested in a change on this issue? A survey carried out by the New Family Organization revealed a majority of Israelis, both men and women, think that there's nothing like a mother's love. Some 46.6 percent believe the mother should be the guardian (50.9 percent of the women and 41 percent of the men), and only 1.7 percent feel the father is the one suitable for the job (2.5 percent of the men and 1 percent of the women). Some 30.5 percent support dividing responsibilities equally between both parents. However, a father's involvement is necessary, even if there are cases in which recognition of such is put to bad use. "We definitely need to act to solidify the father's status in the life of a child following divorce," says Freeling. "But in the face of such studies which show that even in dual-career families, the mother is primarily the one bearing the burden of child-raising, it would be superficial to decide on joint custody after the divorce, when there was no basis for this in the marriage. The change should first take place in the existing family cell while married, and only then be implemented in the wake of divorce."
domenica 20 maggio 2007
Al popolo di Israele di Magdi Allam
Al popolo di Israele
Grazie alla vita ho scoperto l'umanità
l'umanità che mi ha regalato il dono dell'amore
Grazie all'amore ho scoperto la verità
la verità che mi ha regalatoil bene della libertà
Grazie alla libertà ho scoperto Israele
Israele che mi ha regalato la fede nella sacralità della vita
Grazie alla sacralità della vita ho scoperto la civiltà dei valori
la civiltà dei valori che mi ha regalato la fiducia in un mondo di pace
Grazie alla vita, Viva la vita!
Grazie all'amore, Viva l'amore!
Grazie alla libertà, Viva la libertà!
Grazie Israele, Viva Israele
Magdi Allam (dal libro "Viva Israele" edito da Mondadori)
Grazie alla vita ho scoperto l'umanità
l'umanità che mi ha regalato il dono dell'amore
Grazie all'amore ho scoperto la verità
la verità che mi ha regalatoil bene della libertà
Grazie alla libertà ho scoperto Israele
Israele che mi ha regalato la fede nella sacralità della vita
Grazie alla sacralità della vita ho scoperto la civiltà dei valori
la civiltà dei valori che mi ha regalato la fiducia in un mondo di pace
Grazie alla vita, Viva la vita!
Grazie all'amore, Viva l'amore!
Grazie alla libertà, Viva la libertà!
Grazie Israele, Viva Israele
Magdi Allam (dal libro "Viva Israele" edito da Mondadori)
Libano Israele e Guerre Stellari
Per chi riesce a superare la superficialità terzomondista a cui aneliamo per il nostro bisogno naturale di ordine, di chiarezza, di un'inelluttabile star-warsiana distinzione tra le forze del male e quelle del bene, il medio oriente rappresenta lo scontro tra civiltà, quella occidentale filo americana e quella romanticamente rivoltosa dei vari gruppi "militanti" del medio-oriente. Dopo gliscontri tra fazioni palestinesi, o per meglio dire tra moderati e i fanatici della guerra e dell'instabilità, è di oggi la notizia di scontri anche nel nord del Libano, tra le forze militari del governo che cerca di riprendere le redini del paese e gruppi legati ad Al Qaeda. La particolare posizione degli scontri fa riflettere, un campo profughi palestinese nel Nord del paese. ...E sembra di rivivere la prima guerra del Libano quando proprio dai campi profughi Palestinesi scoppiò la guerriglia per la destabilizzazione dello stato che sfociò in una guerra intestina tra cristiani e musulmani. La strategia sempre la stessa: guerriglia, attentati contro Israele nella speranza di una rappresaglia, fitta rete propagandistica. Ecco che Hamas e annessi Palestinesi, Hezbollah e Al Qaeda sfidano la stabilità della regione. Sotto la falsa bandiera della resistenza al nemico sionista uccidono i propri fratelli, portano la fame, la disoccupazione, la disperazione. Il Libano, Israele, la Giordania, l'Egitto sono stati che hanno grandi interessi nella stabilità della regione. I gruppi reazionari terroristi invece hanno solo da perdere, soldi, potere, armi. E' questo lo scontro al cui il mondo assiste, non uno scontro tra musulmani ed ebrei, nè uno tra occidente e oriente, nè uno tra mondo sviluppato e mondo in via di sviluppo. E' lo scontro tra un mondo votato al futuro, alla vita e ai propri figli contro uno votato alla morte e alla santificazione di questa.
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