domenica 16 settembre 2007
Mr Stevens ed io
Siamo molto diversi Mr. Stevens ed io. Eppure una sensazione di comune ansia o forse terrore tenuto a malapena sotto controllo ci segue. Ho sempre avuto la paura di perdere il momento, di perdere l'occasione, quella decisione che comporta prendere una strada invece di un'altra, lasciare alcune persone per andare incontro ad altre. Puó sembrare un discorso per anni che verranno eppure mi ritrovo a farlo di sovente. Ho lasciato Bolzano e la mia adolescenza a 19 anni, dopo uno strano incidente in moto a 16 e un'estate passata a contemplare il tempo, a vederlo scorrere, a sentire chi mi era vicino, chi mi veniva a trovare, una volta almeno, almeno una volta. Ho passato l'estate tra sedie a rotelle, garze e odore di disinfettante; tra le battute con un infermiere di notevole statura e l'infatuazione non corrisposta per un infermiera di un reparto attiguo. Ho fumato chashish, ho flirtato sul davanzale di una finestra nella sala della televisione. Quell'estate ho incontrato Elio. Non che fosse la prima volta, avevamo trascorso anche due anni di liceo insieme prima che venisse bocciato e si fermasse in terza, mentre io e i miei compagni continuavamo in quarta. Ma era la prima volta che lo conoscevo. Era il tipo dell'atletica, il tipo con cui non ho mai troppo legato, che girava in una cerchia di ragazzi che avevano passato una linea immaginaria per i loro anni, una linea che nella mia mente passava ancora lontano, ancora qualche mese o forse anno, la linea dell'alcool, del fumo, delle sbronze e serate perse. Ci eravamo scontrati una volta, una volta sola, negli spogliatoi dell'aula di ginnastica appena rinnovata. Era dopo una partita di calcetto, una battuta sui campi di concentramento, una battuta stupida uscita con la leggerezza di chi non vuole davvero ferire ma scherzosamente pungere. Io mi sentii colpito. Divenni per la prima volta scuro, buio, senza vedere dissi nel silenzio imabrazzato dei compagni qualcosa che non ricordo nemmeno. Ricordo invece come sentissi un fondo di giustizia nella sua bocciatura, quasi come fosse la punizione per quella mattinata, per il suo comportamento sciocco. Perdemmo i contatti. Poi un'appendicite esplosa in peritonite lo portó vicino a me, in una di quelle coincidenze che ti cambiano la vita. Lo andai a trovare in sedia a rotelle, era sdraiato e pallido, la madre vicino. Parlammo di musica. Quando le mie condizioni migliorarono tornai a casa, in un Agosto afoso in quella conca che non permette all'aria di muoversi e il puzzo ricade sulla cittá, ogni olezzo di aliti appena svegliati, di movimenti d'intestino mattinieri, di vacche e latte rancido, di fabbriche e vomito dietro ai cespugli della variante prima del solito wurstel al curry. L'anno scolastico seguente iniziammo a trovarci nella casa vuota della nonna di Elio. Due chitarre e una pentola girata per fare qualcosa che somigliasse ad una batteria. Davide lo squalo (per la capigliatura) ci intrattenne per un paio di giornate poi ci lasció, forse per la diversitá dei caratteri, forse per la nostra sovente depressione, per i momenti di silenzio, di vuoto quasi imbarazzante, dove cerchi le parole, dove cerchi l'accordo, come un foglio bianco davanti, prima di riempirlo di una parte di te, prima di lasciarvi i movimenti dello stomaco. Questa parte del giorno era stressante, era preceduta a casa da esercizi, dalla ricerca di rime, e poi dall'agitazione di presentarle l'un l'altro, dalla sensazione di godimento misto a paura e un fondo di malessere a sentire gli accordi echeggiare nel piccolo salotto, la voce che trema sulle prime parole come per cercare l'approvazione dalle dita sulla chitarra, lo stomaco che si indispettisce a sentire l'altro non del tutto preso dalla musica che hai "creato". C'era competizione, sicuro. Ma tra noi é stata piú forte la voglia di conoscerci e di passare un momento buio della nostra vita, quel momento brufoloso, insicuro, pericoloso e di base depresso che é la tarda adoloscenza. I due anni che passarono ci hanno legato per sempre. Ma poi é arrivato il momento di cogliere l'attimo, di rincorrere il tempo, il sentiero che si spinge verso altri luoghi, altri suonatori di chitarra, altri giorni. E cosí sono partito, tra l'eccitazione del nuovo e lo sconforto di un amico che mi guarda andarsene. Tutti e due consci che si chiudeva il periodo dell'innocenza, si chiudeva il capitolo della spensieratezza, delle canzoni cantate a squarciagola, delle sbronze intorno ai laghi, dei giri notturni nella cittá deserta a consolarci. Iniziava cosí il periodo dello studio, iniziava quel periodo che piú di ogni altro mi ha modellato l'animo, in quel paese conscio del prezzo della morte, e in cui ancora vive il sentimento romantico della collettivitá. Iniziava il periodo di distacco dall'Italia, di odio di tutto ció che la riguardava, di critica alla vita monotona senza sfogo dei miei amici, di scherno verso la cittá che mi ha regalato l'infanzia prima e la giovinezza poi. Iniziava la frattura per non sentire il dolore della ferita. Non ho perso Elio, ci siamo scritti, ci siamo mandati canzoni, parole accordi, cassette. Abbiamo parlato per ore nei momenti bui. Ho sentito Elio vicino al suicidio o cosí ho interpretato il suo stato d'animo, la sua incapacitá/impossibilitá di tirarsi fuori mi dava rabbia, mi dava fastidio o forse mi faceva impazzira la mia impossibilitá di alleviare il suo dolore, e in parte la sensazione di colpa che mi perseguitava per aver preso per primo l'iniziativa di sgretolare il nostro sogno. Elio ha reagito, ha imparato a cantare, ha dato il suo stile alla musica che ora produceva. Uno stile piú rock, meno Baglioni, piú arrabbiato, piú sessuale, piú Buckovsky. Uno stile che mi piaceva e di cui mi rendevo conto di essere stato indirettamente uno dei promotori della sua nuova identitá artistica. Elio suonava meglio di me, lui sa suonare nel senso che sente le note dallo stomaco, scrive con le note, parla con le note, con le dita che scorrono sulla chitarra. Le foto per il suo primo CD le abbiamo fatte insieme in giro per Bolzano un pao di giorni in cui mi trovavo in Italia. Ha raccolto un gruppo di cui ero fondamentalmente geloso e allo stesso tempo felice. Sentivo la qualitá della musica, ero consapevole peró della sua imperfezione. Elio forse avrebbe potuto farcela, in un'altra cittá magari, magari con piú sicurezza, con qualche botta di culo e con intorno persone che condividessero con lui il sogno in quella maniera febbrile e quasi patologica come avevamo fatto noi nei primi anni. Elio non scrive piú o forse lo fa manon me lo dice, Elio non tocca la chitarra, gli fa male e da qualche parte dentro sento ancora un senso di colpa insinuarsi nello stomaco, sento il desiderio di riportarci indietro negli anni e di fermarci li in quei giorni di spensierata depressione tra una canna e una strimpellata e qualche parola sulla bomba atomica e su Fiore e il silenzio. La paura di lasciar dietro luoghi inesplorati e il dover sacrificare amici, sogni e parti di te per esplorare luoghi, per dover vivere o per essere fedele a qualcuno, a qualcosa: questo accomuna Stevens e me. Ed é questo che mi fa star male oggi mattina dopo aver finito di leggere "quel che resta del giorno". Buon giorno.
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